Tenetevi forte. Non lo direste mai, ma stando a quanto affermano gli esperti mondiali e l’intelligence statunitense la Terra vi sta scivolando sotto i piedi. Che voi ne siate a conoscenza o meno, siete su un nuovo pianeta, un mondo al collasso di risorse mai visto prima.
Due scenari da incubo – la penuria globale di risorse vitali e l’incombere degli sconvolgimenti climatici – stanno già convergendo ed è probabile che nei prossimi decenni saranno la causa di un’ondata di agitazioni, contestazioni, rivalità e conflitti.
Finora è stato difficile dare un volto a questo tsunami di disastri, ma adesso gli esperti cominciano a parlare di “guerre per l’acqua”
generate da sistemi fluviali contesi, di rivolte per il cibo innescate dall’innalzamento dei prezzi dei generi di prima necessità, di migrazioni di massa dei “rifugiati climatici” (con la conseguente violenza contro gli immigrati), di collasso dell’ordine sociale e di tracollo degli stati. Inizialmente è probabile che il caos interessi maggiormente l’Africa, l’Asia Centrale ed altre aree del Sud sottosviluppato, ma con il tempo l’intero pianeta sarà coinvolto.
Per avere un’idea della catastrofe che avanza, è necessario esaminare ognuno dei fattori che insieme stanno concorrendo a produrre il cataclisma prossimo venturo.
Scarsità di risorse e risorse di guerra
Cominciate con un semplice assunto: la prospettiva della futura penuria di risorse vitali naturali, compresi l’energia, l’acqua, il terreno, il cibo ed i minerali fondamentali. Ciò basterebbe da solo a garantire instabilità sociale, attriti a livello geopolitico e guerre.
Anche se dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale le scorte globali delle derrate di base sono cresciute enormemente, gli analisti ravvisano la persistenza di conflitti legati alla disponibilità delle risorse in aree dove le materie prime scarseggiano o dove la questione delle riserve viene vissuta con ansia.
E’ importante sottolineare che a completamento di questo scenario non serve la totale mancanza di una data categoria di risorse. Basta l’assenza di un’offerta adeguata a soddisfare le esigenze della crescente popolazione globale, sempre più urbanizzata ed industrializzata.
Vista l’ondata di estinzioni che gli scienziati vanno registrando, alcune risorse – ad esempio particolari specie di pesci, animali ed alberi – diminuiranno nei prossimi decenni, e potrebbero anche scomparire del tutto. Intanto delle materie chiave per la civiltà moderna come il petrolio, l’uranio ed il rame diventeranno sempre più difficili e più costose da reperire, portando così ad una contrazione delle riserve e ad ammanchi periodici.
Il petrolio – la merce in assoluto più importante nell’economia internazionale – fornisce un esempio adeguato. Anche se le scorte di petrolio a livello globale aumentassero nei prossimi decenni, molti esperti dubitano che esse potrebbero soddisfare il fabbisogno di una classe media che cresce e che con ogni probabilità acquisterà milioni di auto nel prossimo futuro. Nel suo “Previsioni sull’Energia Mondiale” del 2011 l’Agenzia Internazionale per l’Energia afferma che una domanda mondiale di 104 milioni di barili al giorno potrà essere esaudita nel 2035. Ciò grazie soprattutto alla riserva addizionale rappresentata dal “petrolio non convenzionale” (il catrame del Canada, l’olio di scisto e così via) così come dai 55 milioni di barili di nuovo combustibile proveniente da campi “non ancora scoperti” e “ancora da sviluppare”.
Tuttavia molti analisti si fanno beffe di quest’analisi così ottimistica, sostenendo che i crescenti costi di produzione (per una fonte di energia che sarà sempre più difficile e costosa da estrarre), l’opposizione ambientalista, le guerre, la corruzione ed altri impedimenti renderanno estremamente difficile il raggiungimento di una crescita di tale portata. In altre parole, anche se la produzione riuscisse per una volta a superare il livello del 2010 di 87 milioni di barili al giorno, non si arriverebbe comunque all’obiettivo dei 104 milioni di barili ed i maggiori consumatori mondiali si troverebbero a dover far fronte ad una potenziale, se non assoluta, carestia.
Un altro potente esempio è rappresentato dall’acqua. Su base annua, la riserva di acqua potabile fornita dalle precipitazioni atmosferiche rimane più o meno costante: circa 40000 chilometri cubici. Ma la maggior parte di queste precipitazioni cade in Groenlandia, nell’Antartide, in Siberia e all’interno dell’Amazzonia dove ci sono pochissimi abitanti, sicché la riserva a disposizione di aree con maggior densità di popolazione è spesso sorprendentemente limitata. In molte di queste regioni le scorte di acqua sono già relativamente rade. Ciò è vero specie per quanto riguarda il Nord Africa, l’Asia Centrale e il Medio Oriente, dove la richiesta continua ad aumentare a causa della crescita della popolazione, dell’urbanizzazione e dell’emergenza delle nuove industrie a sfruttamento intensivo dell’acqua. Il risultato è che, anche quando la riserva rimane costante, lo scenario è quello di una crescente povertà.
Ovunque si guardi il panorama è più o meno lo stesso: le scorte dei beni di prima necessità possono aumentare o diminuire, ma raramente si ha l’impressione che esse superino la domanda, generando così la sensazione di essere in uno stato di carestia diffusa e sistemica. Non importa da cosa è scaturita, la percezione della povertà – o della povertà futura – regolarmente mette ansia, produce astio, ostilità e aggressività. Questo modello oramai è noto, ed è emerso chiaramente nella storia dell’uomo.
Nel suo libro “Costant battles”, ad esempio, Steven Leblanc, direttore delle collezioni per il Peabody Museum di Archeologia ed Etnologia di Harvard, osserva che molte civiltà antiche hanno raggiunto alti livelli di belligeranza in corrispondenza di momenti di carestia dettata dall’aumento della popolazione, da raccolti andati male o da periodi di siccità prolungata. Jared Diamond, autore del bestseller “Collasso”, ha individuato un modello analogo nella civiltà Maya e nella cultura Anasazi del Chaco Canyon in Nuovo Messico. Più recentemente, l’interesse affinché la popolazione avesse di che sostentarsi ha giocato un ruolo significativo nell’invasione giapponese della Manciuria nel 1931, nell’invasione tedesca della Polonia nel 1939 e dell’Unione Sovietica nel 1941, stando a quanto afferma Lizzie Collingham, autrice di “The taste of War”.
Anche se la riserva globale dei beni di base è cresciuta enormemente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli analisti ravvisano la persistenza di conflitti legati alle risorse in aree dove esse sono scarse o dove il pensiero della loro affidabilità per il futuro genera ansia. Molti esperti, ad esempio, credono che la lotta in Darfur e in altre aree del Nord Africa squassate dalle guerre sia stata causata, almeno in parte, dalla competizione tra le tribù rivali per accedere alle scarsissime riserve di acqua. Il tutto, in alcuni casi, esacerbato dalla crescita del livello della popolazione.
“In Darfur”, dice un dossier del 2009 tratto dal Programma Ambientale delle Nazioni Unite sul ruolo delle risorse naturali nei conflitti “la siccità ricorrente, le crescenti pressioni demografiche e la marginalizzazione politica sono alcune tra le forze che hanno fatto precipitare la regione in una spirale di illegalità e di violenza che ha portato a 300.000 morti e all’evacuazione di più di due milioni di persone dal 2003”.
La preoccupazione circa le riserve per il futuro sta spesso anche alla base di conflitti nati per l’accesso o per il controllo delle riserve di petrolio e di gas naturale che si trovano in aree sottomarine contese. Nel 1979, ad esempio, quando la rivoluzione islamica in Iran rovesciò lo Shah ed i Sovietici invasero l’Afghanistan, Washington cominciò a temere che prima o poi l’accesso al petrolio del Golfo Persico gli sarebbe stato negato. A quel punto il Presidente Jimmy Carter annunciò immediatamente quella che sarebbe stata poi chiamata “la Dottrina di Carter”. Nel suo Discorso del 1980 sullo Stato della Nazione Carter affermò che ogni mossa fatta per impedire il prelevamento del petrolio dal Golfo sarebbe stata identificata come una minaccia agli “interessi vitali dell’America” e come tale respinta con “qualunque mezzo necessario, compresa la forza militare”.
Nel 1990 il presidente George H.W. Bush si appellò a questo stesso principio per giustificare l’intervento nella Guerra del Golfo Persico, e la stessa cosa fece suo figlio con l’invasione dell’Iraq nel 2003. Ancora oggi l’uso della forza per impedire agli iraniani di chiudere lo Stretto di Hormuz, il canale strategico che connette il Golfo Persico all’Oceano Pacifico e attraverso il quale passa circa il 35% del petrolio mondiale portato dal mare, rappresenta un caposaldo della strategia degli Usa.
Recentemente la goccia che ha fatto traboccare il vaso nel conflitto tra la Cina ed i suoi vicini nel sudest asiatico è stata la questione del controllo del gregge al largo e delle riserve di gas nel mare della Cina del Sud. Nonostante la perdita di vite umane nel corso dei conseguenti scontri navali sia ancora da valutare, esiste la forte probabilità di un’escalation militare. Una situazione simile è venuta a crearsi anche nel mare della Cina dell’Est, dove Cina e Giappone si contendono il controllo di riserve sottomarine dello stesso valore. Contemporaneamente nel Sud dell’Oceano Atlantico l’Argentina e La Gran Bretagna stanno ancora litigando per le Falkland (chiamate Las Malvinas dagli argentini) perché intorno ad esse è stato trovato il petrolio.
È un’idea condivisa quella secondo cui conflitti generati dalla questione delle risorse come quelli finora descritti andranno ad aumentare nei prossimi anni mano mano che la domanda crescerà, le scorte diminuiranno e la maggior parte degli avanzi si troverà nelle aree contese. In uno studio del 2012 intitolato “Risorse future”, lo stimato gruppo di esperti inglese Chatham House ha espresso un particolare interesse nei confronti delle possibili guerre causate dall’acqua, specie in aree come il bacino del Nilo e del Giordano dove diversi popoli e nazioni devono condividere il fiume per soddisfare le proprie necessità e pochi possiedono i mezzi per sviluppare delle alternative. “In questo scenario di crisi e di competizione, la questione del diritto all’acqua, dei prezzi e dell’inquinamento sta diventando urgente”, sottolinea il rapporto. “In aree con scarsa capacità di governare le risorse condivise, di equilibrare le domande in competizione e di mobilitare nuovi investimenti, le tensioni causate dal problema dell’acqua potrebbero sfociare in conflitti ancora più aperti”.
Un mondo verso lo shock delle risorse
Tensioni di questo genere sono destinate ad aumentare da sé perché in moltissime aree le scorte di beni di prima necessità non potranno stare al passo con la domanda. Tuttavia, a quanto pare, esse non faranno tutto da sole. In questo pianeta un secondo fattore ha fatto irruzione nell’equazione in maniera significativa. Si tratta dell’incombente realtà del cambiamento climatico, che rende tutto ancor più terrificante.
In genere, quando pensiamo all’impatto del cambiamento climatico, pensiamo prima di tutto all’ambiente – lo scioglimento della calotta polare artica o dello scudo di ghiaccio della Groenlandia , l’innalzamento dei livelli globali del mare, l’intensificarsi delle tempeste, l’espansione dei deserti, il fatto che alcune specie (come l’orso polare) siano in pericolo o addirittura a rischio di estinzione. Tuttavia un numero sempre maggiore di esperti sta realizzando che le più gravi conseguenze del cambiamento climatico si avvertiranno nel momento in cui gli habitat su cui si fa affidamento per quanto riguarda la produzione del cibo, lo svolgimento delle attività industriali o semplicemente la possibilità di vivere verranno danneggiati se non completamente distrutti. Fondamentalmente il cambiamento climatico ci getterà nel caos totale limitando la nostra possibilità di accesso alle risorse primarie come il cibo, l’acqua, la terra e l’energia. Ciò sarà distruttivo per la vita umana, anche perché farà aumentare il pericolo che insorgano conflitti di ogni genere.
Dei futuri effetti del cambiamento climatico sappiamo abbastanza da poter pronosticare quanto segue:
⁃ l’innalzamento del livello del mare causerà, nella prossima metà secolo, la scomparsa di molte aree costiere, distruggendo grandi centri, infrastrutture fondamentali (incluse strade, ferrovie, porti, aeroporti, oleodotti, raffinerie e centrali elettriche) ed importanti terreni agricoli.
⁃ La diminuzione delle precipitazioni ed i periodi di siccità prolungata trasformeranno quelli che una volta erano lussureggianti terreni coltivabili in un paesaggi simili al profondo sud, portando ad un calo nella produzione del cibo e trasformando milioni di persone in “rifugiati climatici”.
⁃ Bufere più forti ed intense ondate di calore stermineranno i raccolti, scateneranno dei roghi nelle foreste e distruggeranno le infrastrutture fondamentali.
Nessuno è in grado di prevedere quanto cibo, terra, acqua ed energia (ed altri effetti del cambiamento climatico che sono ancor più difficili da pronosticare o addirittura da immaginare) andranno perduti in questo disastro, ma l’effetto globale sarà senza alcun dubbio sconvolgente. In “Risorse Future” Chatham House mette in guardia sulla minaccia che la diminuzione delle precipitazioni rappresenta per l’agricoltura che sfrutta l’acqua piovana. “Entro il 2020”, dice il report, “in alcune aree i raccolti provenienti dall’agricoltura sostenuta dalla pioggia potrebbero ridursi del 50%”. I maggiori tassi di perdita sono previsti in Africa, dove si fa molto affidamento sulle precipitazioni, ma anche in Cina, India, Pakistan ed Asia Centrale.
Le ondate di calore, la siccità ed altri effetti del cambiamento climatico avranno conseguenze anche sul flusso di fiumi importantissimi, che riducendosi porterà alla diminuzione dell’acqua necessaria all’irrigazione, alle centrali idroelettriche ed ai reattori nucleari (a cui servono enormi quantità di acqua in fase di raffreddamento). Anche lo scioglimento dei ghiacciai, specie nelle Ande in America Latina e sull’Himalaya nel sud dell’Asia, priverà città e comunità di scorte d’acqua indispensabili. Il pronosticato aumento della frequenza di tifoni ed uragani rappresenta una minaccia sempre più grave per le piattaforme di trivellazione in mare aperto, per le raffinerie costiere, per le linee dell’alta tensione e per altri componenti del sistema energetico globale.
Lo scioglimento della calotta artica lascerà aperta la via alle ricerche di gas e petrolio, ma l’aumento degli iceberg renderà pericoloso ed eccessivamente costoso ogni sforzo per sfruttare le risorse di questa regione. Le stagioni di crescita al nord, specie nelle province settentrionali della Siberia e del Canada, potrebbero compensare almeno in parte l’essiccazione dei terreni coltivabili al sud. La migrazione del sistema agricolo globale (e quindi dei contadini di tutto il mondo) da terreni abbandonati negli Usa, in Messico, in Brasile, India, Cina, Argentina e Australia verso il nord, tuttavia, è una prospettiva inquietante.
È assodato che il cambiamento climatico, specie se combinato con una crescente penuria di riserve, si tradurrà in una riduzione significativa delle risorse vitali del pianeta e porterà all’intensificazione delle pressioni che in passato hanno portato a conflitti, persino in circostanze migliori. Così, secondo l’analisi di Chatham House, il cambiamento climatico va approcciato come “una minaccia multipla…un fattore chiave che va ad esacerbare la già esistente fragilità delle risorse” in stati inclini ad un certo tipo di disordini.
Come altri esperti in materia, gli analisti di Chatham House sostengono che i cambiamenti climatici porteranno ad un impoverimento dei raccolti in molte aree, facendo impennare i prezzi a livello globale e scatenando dei disordini tra coloro che già sono al limite della sopravvivenza. “ L’aumentata frequenza e gravità di eventi meteorologici estremi, come ad esempio le fasi di siccità, le ondate di calore e le alluvioni avranno come conseguenza degli shock sempre più violenti sui raccolti locali in tutto il mondo…questi shock colpiranno i prezzi a livello globale ogni volta che i centri chiave della produzione agricola verranno scossi, amplificando ulteriormente l’instabilità del costo mondiale del cibo”. E questo, a sua volta, renderà più probabile l’insorgere di disordini civili.
Quando ad esempio nel 2010 una devastante ondata di calore decimo’ il raccolto della Russia, il prezzo globale del grano (e quindi dell’alimento base della vita, il pane) subì un’inesorabile impennata, raggiungendo livelli particolarmente alti in Nord Africa e nel Medio Oriente. Vista la mancata volontà o possibilità da parte dei governi locali di aiutare le popolazioni disperate, la rabbia scaturita dal non potersi nemmeno permettere il cibo si riversò con forza contro i regimi autocratici, per sfociare poi nell’esplosione massiva popolare nota come Primavera Araba.
Scoppi simili saranno sempre più probabili in futuro, dice Chatham House, se i trend del cambiamento climatico e dell’impoverirsi delle scorte continuano e si mischiano sino a formare una sola realtà nel nostro mondo. Una sola domanda dovrebbe ossessionarci: “Siamo sulla soglia di un nuovo ordine mondiale dominato dalle lotte per l’accesso alle poche risorse disponibili?”.
Per l’intelligence statunitense, che sembra essere molto influenzata dal rapporto, la risposta è stata netta. In marzo, per la prima volta, il direttore dell’Intelligence Nazionale James R. Clapper ha citato “la competizione e la povertà che coinvolgono le risorse naturali” come minacce alla sicurezza nazionale, al pari del terrorismo globale, della guerra elettronica e della proliferazione nucleare.
“Molti paesi importanti per gli Stati Uniti sono vulnerabili ai turbamenti delle risorse naturali che portano al degrado dello sviluppo economico, frustrano ogni tentativo di democrazia, innalzano il rischio di instabilità minacciose per i governi e aggravano le tensioni locali”, ha scritto Clapper nel suo discorso al Comitato Speciale per l’Intelligence al Senato. “Eventi meteorologici estremi (alluvioni, siccità, ondate di calore) perturberanno in maniera sempre più incisiva i mercati, accentuando la debolezza degli stati, costringendo le persone a migrare ed innescando disordini, disobbedienza civile e vandalismo”.
C’è un’espressione nuova inserita nei suoi commenti: “shock delle risorse”. Coglie qualcosa del mondo nel quale stiamo precipitando e, per essere il linguaggio di un’intelligence che, come il governo che serve, ha sempre minimizzato se non addirittura ignorato i pericoli del cambiamento climatico, è davvero molto impattante. Per la prima volta gli analisti del governo superiore potrebbero seriamente prendere in considerazione ciò che gli esperti dell’energia e gli scienziati vanno dicendo da tempo: uno sfruttamento smodato delle riserve naturali, combinato con l’avvento di alterazioni climatiche estreme, può sfociare nell’esplosione di caos e conflitti a livello globale. Stiamo andando dritti verso il mondo dello shock delle risorse.
Michael T. Klare
Fonte: www.tomdispatch.com
Link: http://www.tomdispatch.com/blog/175690/tomgram%3A_michael_klare%2C_the_coming_global_explosion 21.04.2013
Traduzione per Comedonchisciotte.org a cura di DONAC78
Nota della redazione
Nella presente traduzione sono stati omessi i numerosi link presenti nel testo originale
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