Agricoltura

In Virginia botte da orbi sul TTIP

di Monica Di Sisto, Fairwatch
Avrei voluto davvero esserci, ad Arlington: vedere un allevatore americano che affronta un azzimato diplomatico europeo per chiedergli quando in Europa la pianteremo di impedirgli di venderci le sue bestie cresciute con gli ormoni, e se ci decideremo a farlo con il TTIP, non ha prezzo. I tradizionali dialoghi con la società civile, che i negoziatori del Trattato transatlantico di liberalizzazione di commercio e investimenti Usa-Ue svolgono a margine delle trattative in corso in questa settimana oltre Oceano, hanno assunto nella ridente cittadina della Virginia un tono meno patinato di quello cui ci avevano abituato Bruxelles e Washington. E questo quinto ciclo negoziale si tinge di farsa, con Lorenzo Terzi, capo dell’unità delle relazioni internazionali bilaterali nella Direzione generale per la salute e i consumatori della Commissione europea, che imbarazzato raccomanda al vaccaro lobbista dell’American Meat Institute (AMI) Jim Hodges, a quanto riporta la stampa presente “di adottare una posizione più in linea con quella degli altri partner commerciali” e quindi “di cominciare a sperimentare la produzione libera da ormoni” senza insistere su una direzione “che non ha possibilità d’essere considerata a breve o medio termine”. Insomma, un principe in visita alle stalle.
Di recente, nell’ambito del Trattato di liberalizzazione con il Canada, l’Europa ha già concesso a quel partner di piazzare nel nostro mercato una quota cospicua di carne in più rispetto al passato, a patto che fosse libera da ormoni, e altrettanto vorrebbe propinare agli Usa. Peccato che, a distanza, il ministero del commercio Usa aveva già avvertito il commissario europeo De Gucht che questa non era una proposta interessante per loro, a meno che non si parlasse di far entrare tutta la carne a stelle e strisce, ormoni compresi. D’altronde il lobbista Hodges l’ha fatto capire a chiare lettere nel suo intervento: gli ormoni sono solo l’inizio. Altre condizioni vincolanti per il loro appoggio al TTIP – determinante per il consenso del Congresso Usa – sono l’ingresso nel mercato comunitario della loro carne di maiale “senza essere costretti a condurre test non necessari” sugli animali in ingresso, e idem dicasi per i polli, che noi respingiamo al mittente perché usano lavarli con il cloro ed altre giocondità tossiche. I controlli e le misure di sicurezza sanitaria su vegetali e animali, ha ammonito Hodges, “devono basarsi sulla scienza”, e l’Europa deve dimostrare apertura e disponibilità ad abbattere le sue barriere su tutti i prodotti agroalimentari, senza prevedere gradualità, periodi di transizione, o meccanismi specifici contro il dumping – che l’Europa ha usato spesso per proteggersi dagli aggressivi esportatori americani – se no non se ne fa niente. Insomma, un vero, irrituale, ultimatum, dal recinto delle vacche al nirvana del decision making commerciale.
Amenità a parte, in questo incontro Usa e Ue sono entrati nel vivo degli interessi veri, e le differenze strategiche si sono fortemente accentuate. Il capo dei negoziatori USA Dan Mullaney ha spiegato nei meeting di questi giorni che si comincia a parlare di testi concreti e della loro formulazione verbale – cruciale per ottenere nero su bianco quello che si vuole – e che mentre la sua delegazione ha presentato le proprie prime offerte di liberalizzazione di servizi, tariffe e appalti pubblici, la Commissione Ue non è riuscita perché i Paesi membri non hanno raggiunto in tempo per Arlington il consenso necessario a consolidarle. L’Europa, soprattutto, non ha ancora idea di come strutturare un meccanismo di cooperazione orizzontale sugli standard che sia accettabile per tutti i suoi membri, che tra loro hanno ancora meccanismi diversi e non completamente livellati dalle leggi comunitarie, che non coprono tutto l’ampio spettro delle normative rilevanti per un trattato di liberalizzazione commerciale di questa portata e che quindi vedono i diversi Paesi membri regolare alcune materie non trascurabili – ad esempio alcune previsioni sui brevetti, altre sulla sicurezza sul lavoro, altre in materia ambientale, di controlli fitosanitari, alimentari e così via – ciascuno ancora a proprio modo.
Per i servizi, l’Europa nei mesi scorsi avrebbe proposto l’abbattimento del 95% di tutte le sue tasse sulle importazioni di servizi dagli Usa per tutti gli Stati membri, mentre gli Usa avrebbero concesso appena il 69% delle proprie linee di tariffe, aprendo l’accesso ai soli servizi di competenza federale e tenendo gelosamente protetti quelli gestiti dai singoli Stati. La giustificazione? Se l’Europa non mollerà su agricoltura e cibo, a cominciare dalle Indicazioni Geografiche dei prodotti alimentari – che sull’altra sponda dell’oceano vengono trattate come suggestive fissazioni da europei anziani e sulla quale i negoziatori hanno discusso più di mezza giornata senza venirne a capo – gli Usa non faranno un passo in più. Senza contare che gli Usa vogliono che il trattato affronti i servizi finanziari in un capitolo dedicato, con un impianto specifico che tenga conto delle recenti regolazioni da loro introdotte dopo lo scoppio della bolla speculativa su mutui e derivati, mentre banche e fondi di casa nostra spingono perché entrino nel calderone generale dei servizi, per avere più forza negoziale visto che già sulla liberalizzazione dei servizi di trasporto aereo e postali ci sono visioni opposte su quanto sia necessario concedere e quanto proteggere. Da parte Ue, poi, noi vorremmo normare in capitolo separato del TTIP energia e materie prime, per assicurarci un volume d’importazioni costante e crescente di entrambi, mentre sono gli Usa qui a promuovere l’”approccio calderone”.
Insomma un brutto teatrino vaudeville, quello di Arlington, con l’Europa trattata da anziana signorina questuante petulante da una sorta di gigolò globale, che le mostra solo a tratti spiragli delle sue appetibili grazie energetiche e ormonate, richiudendo seccato il paletot appena lei accenna qualche ricordo di dignità. Che brutta fine…

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